«Ma non sono mai riuscito a capire fino in fondo
perché ricadesse ogni volta in qualcosa
che temeva e detestava tanto come l'eroina,
a meno che, nel suo terror panico di essere
abbandonata, o di non essere abbastanza amata,
non avesse bisogno di verificare continuamente
fin dove, in fondo a quale abisso, l'uomo
che amava sarebbe venuto a riprenderla.»
Joséphine è l'amante meravigliosa
che il narratore ha perduto – morta
di overdose a trentadue anni – nella
notte tra il 25 e il 26 marzo 1993.
A lei, un anno dopo, restituisce voce,
gesti, smarrimenti, in una lettera
postuma che l'asciuttezza
e la laconicità del tono rendono
commovente, scritta affinché «chi
non l'ha mai conosciuta, chi non l'ha
perduta», possa, leggendola,
«innamorarsi perdutamente di lei».
ll suo ritratto è consegnato in queste
pagine all'affiorare dei ricordi, per
trattenere ogni dettaglio e salvarlo
dalla perdita irrimediabile della morte.
Il narratore si limita a dire le loro gioie
fugaci, i loro scherzi, i loro litigi, i loro
viaggi, le loro notti gelide e luminose.
E, anche, il rimorso per non aver
saputo cogliere in tempo i segni di
una disperazione e di un bisogno
d'amore abissali.
Un omaggio così pudico, così discreto
che una volta chiuso il libro il lettore
se ne va in punta di piedi, per paura
di disturbare quei due che si amarono
e che continuano a parlarsi
tra le ombre.
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